Il senso del povero – il senso di Dio (Paolo VI)

Lo spirito di Don Orione. C’è un libro intitolato così e che voi forse conoscerete meglio di me, poiché gli Amici hanno certamente la consuetudine di attingere a queste fonti genuine. Non saprei farvi da pilota, in mezzo a questa selva – perché tale è – di vegetazione spirituale che chiamano lo spirito di don Orione.
Sembra persona semplice, don Orione – sembra un umile prete di pochi talenti e di poca fortuna; sembra, con quel suo capo grosso, rotondo, direi paesano – me lo
ricordo ancora – un po’ curvo sulla spalla, quasi che indicasse con questo una sua timidità e denunciasse subito la umiltà del suo spirito. Sembra molto facile subito individuare questo spirito. Provate ad esplorarlo. Provate a varcare le soglie, con riverenza, vero, e con acutezza psicologica umana e cristiana. Provate a varcare le soglie di questo spirito e vedrete se la cosa è semplice. Pensate un po’ – ed ecco che io tento adesso la vostra bravura – e cioè vorrei avviare in voi stessi una meditazione che al di là di questo breve momento potesse continuare. Una meditazione per voi stessi, amici, voi che beneficiate dell’Opera di Don Orione, voi che la beneficiate, voi che la sostenete, l’ammirate, la conoscete e oggi con me la celebrate.
Provate a continuarla…
Qual era lo spirito di don Orione? Sapete fare l’indagine e sapete fare la sintesi? Sapete individuare i punti direi strategici dove davvero la genetica di questo spirito
può essere collocata ed individuata? A me, vien fatto di trovare due punti di questa psicologia, che mi sembrano interessanti e riassuntivi, e che sono due punti protesi verso l’invisibile, come due antenne che sanno cogliere voci, sanno captare energie che noi poveri mortali, e gente non adusata alle vie della santità, trascuriamo; come chi non ha l’apparecchio radio non può cogliere le mille voci, le tante musiche che percorrono i nostri orizzonti, entrano nelle nostre case. Noi siamo sordi e siamo non recettivi a tutto questo linguaggio che pervade il cielo. Ma se il linguaggio capita all’apparecchio, l’apparecchio lo coglie e lo traduce. Ebbene, i Santi hanno di queste capacità, di cogliere e di tradurre. E mi pare che le due antenne che don Orione ha innalzato nel cielo e che ha reso efficaci per l’opera sua, così da renderla meravigliosa ai nostri occhi, siano queste. La prima è il senso del povero. Ci sono degli uomini che lo hanno; che anche se siedono a mensa, se stanno nello studio, a casa, tranquilli o fanno altre cose, hanno questa – direi – epidermide spirituale, che è pulsante, che è palpitante di umanità lontana, di un’umanità che loro non conoscono, di una umanità che forse non hanno ancora incontrato, ma che indovinano. Anzi, si direbbe che questa sensibilità diventa più acuta, quanto più il soggetto è meno prossimo al povero stesso. L’hanno in funzione, quasi, delle comodità e degli apparati borghesi da cui sono circondati, e che diventano, invece che dei diaframmi che attutiscono questa sensibilità, delle forze, delle forme che l’acutizzano. Uno si siede a mensa e dice: Ma io qui ho da mangiare, e gli altri? Uno che va a coricarsi in un letto molle e tiepido e che dice: Ma io ho un letto, ed altri forse non lo hanno. E uno che ha quattro soldi in tasca ed è sicuro di averli anche domani e dice: La mia vita è facile, ma è facile per tutti?… Questo senso della esistenza umana non ancora individuata, ma che pulsa, e ferisce la corteccia cardiaca, il cuore spirituale di questo soggetto. Il senso del povero, del misero, dell’umile. Questo senso che il mondo moderno ha e non ha; lo ha in gran parte, e diamo lode. Siamo sempre portati forse a parlar male della nostra società. Dobbiamo invece qui darle una bella e ampia testimonianza. La nostra società lo ha acquisito, questo senso che è cristiano. Lo ha reso costume,
ne ha fatto leggi, ne ha fatto istituzioni. Si è perfezionato ed è diventato quella che modernamente si definisce l’assistenza. L’assistenza è entrata, per fortuna, nelle abitudini della società moderna. Ed ecco che l’assistenza ha davvero questa sensibilità delle necessità umane. Salvo che è diventata profana. E cioè prescinde dai motivi che le hanno dato origine, dalla radice spirituale e religiosa da cui essa parte. Non si domanda il perché e non oltrepassa neanche i limiti della fenomenologia
immediata del male e del bisogno. Si ferma al soccorrere. Con una impersonalità che le è dovuta per altre leggi che adesso non indaghiamo, ma che la rendono – come dire? – burocratica, la rendono meccanica, la rendono frettolosa. Infine quand’è che l’assistenza registra dei risultati? Quando dice: C’erano cento
poveri ed ora non ci sono più. Quello che ha il senso del povero, non dice così. Ma: «C’erano cento poveri, e sono duecento. Avevo cominciato con due o tre, adesso ho una casa piena». È l’aumento di questa sensibilità che misura e dosa in un certo senso questa capacità di percepire chi è il fratello che soffre e perché, e quasi per quale dovere io devo occuparmi di lui. Il senso del povero, dicevo, va anche scomparendo nella comune estimazione degli uomini appunto perché ci sono degli organi.
Ci pensi chi deve… L’ho mandato al tale ospizio… Rifugiatelo alla tal altra assistenza; cavatemelo via dagli occhi, non lo voglio più vedere. Le nostre strade devono esser pulite. Le nostre abitazioni devono essere decorose. Le nostre mense non devono essere disturbate. Io voglio fare la mia vita tranquilla. Non voglio mendicanti ed accattoni vicini a me. Spazzateli via… E l’uomo fa i suoi affari e non ci pensa più. E il senso del povero viene meno e nasce potente un altro senso, giusto anche questo
e legittimo; ma guai se diventa esclusivo: quello dei beni, l’economia, il senso economico. L’«homo oeconomicus» non sente più come sentiva l’uomo vivo, l’uomo della carità. Fa i suoi affari. Si è chiuso e barricato in questa sfera che tante volte diventa ferocemente egoista e tramuta il povero, colui che ha bisogno di guadagnarsi un pane,
nello schiavo che serve, nell’operaio che deve tacere, nella organizzazione che prescinde dai bisogni, dai diritti dell’umanità, che resta sempre tale, anche quando
è sguernita di doti esteriori e di capacità economiche e sociali. Il senso del povero lo aveva don Orione? Ah! C’è una frase – nel libro che vi ho appena citato –, che dice, e quasi si direbbe sfuggita inavvertitamente dalla penna di chi scrive, tanto è connaturata con la psicologia dell’uomo che sto descrivendo: «Era sempre in cerca dell’occasione di fare un’opera di carità». Si direbbe che è proprio l’uomo che dice: Io voglio vedere se qui c’è un povero, uno da consolare, uno da sostenere, uno che ha bisogno di me, uno da servire. Ecco don Orione! Ecco il suo spirito, ecco questa sua capacità di percepire i bisogni degli altri. E allora, la capacità conseguente di andare in soccorso, di andare – che so io – a condividere anche se non si può del tutto soccorrere, di ospitare presso di sé, di convivere con chi ha fame e con chi ha sete…
E qui viene, mi pare, quest’altra seconda antenna; che non ci è ignota, ma che noi sappiamo così malamente adoperare. E cioè l’antenna che avverte come, sopra la vicenda umana, i casi umani, la storia, per dire una parola solenne, e potremmo anche dire la nostra umile vicenda di Renzo e di Lucia – come la direbbe il Manzoni
a chiusura del suo libro sapiente –, sopra questa vicenda umana, c’è una forza agente, c’è una intelligenza vegliante, C’è una bontà premurosa, c’è una mano che manovra le vicende umane stesse. Difficilissimo il cogliere e ridurre in schemi e categorie della nostra logica e della nostra statistica questa funzionalità. Difficilissimo, perché i
nostri strumenti hanno orari diversi; la Provvidenza non ha il nostro orario, non ha il nostro orologio. Alcune volte viene prima e anticipa. Alcune volte viene dopo, e ci lascia delusi al momento in cui noi l’avremmo invocata. Agisce, direi, a suo modo, non è vero? Non si lascia imbrigliare da schemi che mettano contenti il nostro egoismo e quella strana voglia che abbiamo di rendere sperimentali le cose che non si sperimentano, le cose dello spirito, le cose di Dio. Ma il fatto è che c’è, e che alcune volte ci previene, alcune volte ci segue, alcune volte cambia la scena per realizzarsi in altra maniera da quella che noi supponevamo e volevamo: alcune volte, invece, sembra quasi venire a colloquio e dire: – Si, vuoi questo? Ecco te lo do! Che cosa vuoi ancora? – Vorrei quest’altro. Eccolo pronto! – Ma mi manca una terza cosa. Ecco una quarta, che viene sovrabbondante, così … Questo è un gioco di prestigio di Domineddio, non è vero? Questo venire a colloquio e far trovare le cose che si compiono e che sembrerebbero impossibili alla casualità umana. È il gioco, anche questo, dei Santi, che hanno la percezione più saggia, più profonda, più acuta dell’azione di Dio vicina a quella degli uomini, e sanno mettersi in fase – come si dice in termine tecnico – e cioè non soltanto avvertire che c’è, questa causalità, ma – la parola non è molto propria – imbrigliarla, contenerla, riceverla e, in certo senso, applicarla ai bisogni che hanno davanti. Don Orione fu un mago, per questo. Intanto, intitolò l’opera sua alla Divina
Provvidenza, che vuol dire ad un rischio continuo, ad un atto di fede basato non su argomenti tangibili e umani, terreni e temporali, calcolabili, ma sopra questo incalcolabile ma reale aiuto che viene da Dio.
E perché ciò fosse possibile mise nel cuore suo, e in quello dei suoi figli e successori, l’arte di captare la Divina Provvidenza; che è un supremo disinteresse, che è una preghiera che non dorme mai, che è una bontà che sorride quando verrebbe tanta voglia di piangere, che è una pazienza che resiste quando tutto farebbe dire: – Beh, finiamola e basta così! Se il mondo non vuole, vada alla malora anche lui; che io sono stanco di star a beneficare e a consolare chi non vuole essere né beneficato né consolato… Questa capacità di ricevere, di meritare l’aiuto della Provvidenza – l’ascetica cioè che rende possibile il contatto e l’innesto della causalità di Dio con la nostra – don Orione la ebbe. Il senso del povero, il senso di Dio. Mi sembrano le due antenne che spiegano, in gran parte almeno, la psicologia di don Orione.

Trascrizione del solenne discorso di mons. Giovanni Battista Montini, allora arcivescovo di Milano, nell’Aula Magna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in occasione del XX di fondazione del Piccolo Cottolengo Milanese, pubblicato in «La Piccola Opera della Divina Provvidenza», maggio 1958.

dal libro: Le mani della Provvidenza