27 novembre: prima domenica di Avvento

La Chiesa inizia un nuovo anno liturgico, un nuovo cammino di fede che, da una parte, fa memoria dell’evento di Gesù Cristo e, dall’altra, si apre al suo compimento finale. E proprio di questa duplice prospettiva vive il tempo di Avvento, guardando sia alla prima venuta del Figlio di Dio, quando nacque dalla Vergine Maria, sia al suo ritorno glorioso, quando verrà “a giudicare i vivi e i morti”, come diciamo nel Credo.

L’attesa, l’attendere, è una dimensione che attraversa tutta la nostra esistenza personale, familiare e sociale. L’attesa è presente in mille situazioni, da quelle più piccole e banali fino alle più importanti, che ci coinvolgono totalmente e nel profondo. Pensiamo, tra queste, all’attesa di un figlio da parte di due sposi; a quella di un parente o di un amico che viene a visitarci da lontano; pensiamo, per un giovane, all’attesa dell’esito di un esame decisivo, o di un colloquio di lavoro; nelle relazioni affettive, all’attesa dell’incontro con la persona amata, della risposta ad una lettera, o dell’accoglimento di un perdono.

Si potrebbe dire che l’uomo è vivo finché attende, finché nel suo cuore è viva la speranza. E dalle sue attese l’uomo si riconosce: la nostra “statura” morale e spirituale si può misurare da ciò che attendiamo, da ciò in cui speriamo.

Oggi, dunque, con l’inizio del nuovo anno liturgico, la Chiesa attende la venuta del suo Signore. E allora tutti siamo invitati ad andare con gioia, con esultanza, con consapevolezza e senza indugi incontro a «Colui che è, che era e che viene l’Onnipotente!» (cf Ap 1,8). Non possiamo vivere con spensieratezza come i contemporanei di Noè i quali, «nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo».

Spesso, anche noi, siamo in questo stato di apatia morale: chiudiamo gli occhi ai fatti tragici che sconvolgono l’umanità e, purtroppo, riusciamo perfino a non accorgerci delle esigenze più profonde che urgono dentro di noi. Viviamo in una società addormentata, che tenta di banalizzare tutto, che cerca di mascherare le proprie paure e angosce con false sicurezze, con il miraggio dispersivo del piacere, del denaro, del successo. Ecco allora attuale il pressante richiamo dell’apostolo Paolo: «è ormai tempo di svegliarvi dal sonno». Ebbene, scuotiamoci dal nostro torpore, dalle nostre insensibilità, dalla nostra scarsa attenzione a Dio che viene e al prossimo che ci interpella. Solo se viviamo questa «consapevolezza del momento» e ci «rivestiamo del Signore Gesù Cristo» possiamo accogliere il monito di Gesù: «Vegliate…tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Per questo Gesù ci dà un comando: «Vegliate», cioè state attenti, camminate nella strada giusta. Nel vangelo, l’immagine del Signore paragonato ad un ladro che sopraggiunge nel cuore della notte, esprime in modo fortemente significativo la necessità di questa continua vigilanza, perché la Chiesa e i cristiani corrono continuamente il rischio di non sentire i passi di Gesù che viene e che bussa alle loro porte.

La continua vigilanza e la vitale attesa sono, dunque, le due condizioni per accogliere con amore Colui che è venuto una prima volta duemila anni fa; Colui che viene sempre nella storia quotidiana di ogni uomo; Colui che verrà alla fine del tempo. In termini definitori potremmo dire: chi veglia e attende, ama veramente, senza “se” e senza “ma”.

Chiediamo a Dio nostro Padre che risvegli in noi uno spirito vigilante affinché ci aiuti a camminare sulle sue vie secondo la sua volontà.

Don Lucio D’Abbraccio