Rendere possibile l’impossibile

La presa in carico di una persona su cui grava una fondata opinione di irreversibilità di una condizione clinica pone il terapista della riabilitazione di fronte a una ridotta libertà d’azione. Il suo lavoro dovrà limitarsi alla conservazione dello status quo, al fare il possibile per mantenere la qualità della vita della persona con nessun margine di miglioramento. Ma ne siamo proprio sicuri?

Il contributo, racconta la storia di Luca e suggerisce che si può accogliere la sfida coinvolgendo la persona e la sua famiglia, in un percorso spesso accidentato e difficilmente formalizzabile in un protocollo di trattamento.

Si verificano solo i miracoli. Tutto il resto è scontato. (Carmelo Bene, La voce di Narciso)

Questa è la storia di un giovane uomo che chiameremo Luca.

Luca, quarant’anni, ha una diagnosi di tetraparesi spastica e una grave disartria; alcuni anni fa, per complicanze e peggioramento delle proprie condizioni, è stato dichiarato non alimentabile per bocca. Ciò ha reso necessaria una gastrostomia endoscopica percutanea (PEG) per l’alimentazione tramite nutripompa, escludendo del tutto quella per bocca.

Al passaggio all’alimentazione esclusivamente enterale, la vita percettiva di una persona come Luca già gravemente compromessa, risulta ancor più impoverita: la percezione del gusto e dell’olfatto dei cibi, il piacere insito nel mangiare, e la valenza sociale e relazionale del consumo degli alimenti (le routine quotidiane, la scelta e l’attesa del pasto, le diverse persone che si avvicendano alla somministrazione dei pasti …) rappresentano, infatti, una parte molto significativa della gamma sensoriale ed esperienziale. La deprivazione di questi contatti percettivi ed esperienziali hanno ripercussioni importanti sullo stato psicologico della persona.

Il buon senso e una consona pratica professionale avrebbero consigliato al terapista della riabilitazione di occuparsi esclusivamente dello status quo: d’altronde la condizione oggettiva del paziente non lasciava aperte molte strade per una sua sostanziale riabilitazione. Pur avendo in mente tutto ciò, nel 2018 la logopedista inizia un percorso riabilitativo, per così dire esplorativo, in un primo momento volto esclusivamente a riprendere confidenza con gusti e odori, dunque a solo scopo “edonistico”. Gli alimenti non venivano ingeriti, perché ciò poteva rappresentare una reale minaccia per l’incolumità del paziente. Dopo questi “pasti simulati”, il suo cavo orale doveva essere ogni volta pazientemente pulito e disinfettato per evitare che rimassero residui di cibo che sarebbero potuti essere aspirati nelle vie aeree. Durante questa fase della riabilitazione si è venuta a creare una stretta relazione tra Luca e la logopedista, che era scandita da routine quotidiane, discussioni e  “scontri”.

Dopo un congruo periodo di tempo in cui Luca ha potuto riprendere confidenza con la consistenza, il gusto e l’odore dei cibi, la logopedista ha dato il via a una cauta e graduale riabilitazione della deglutizione: Luca ha così ricominciato a mangiare. Ovviamente, il suo cibo era sempre sotto forma di omogenizzato. Per assicurare un sicuro transito orofaringeo, si sono insegnate a Luca le posture di compenso della deglutizione che, dopo un periodo di addestramento, sono state imparate e messe in pratica. È stato necessario selezionare attentamente gli alimenti da somministrare, sia tenendo conto delle sue preferenze, sia evitando cibi eccessivamente “appetitosi”, che avrebbero potuto aumentare eccessivamente la secrezione salivare. Come è facile immaginare, tutto ciò è stato seguito con una certa apprensione, perché era del tutto ovvio che questo percorso non fosse scevro da rischi. Tuttavia, anche grazie al supporto e alla fiducia ricevuti dalla famiglia di Luca, perseverando e andando oltre, si è ottenuto un risultato di valore inestimabile e, soprattutto, inatteso.

La terapista, e con lei tutta l’equipe, si è mossa in un terreno accidentato, ignoto e non illuminato da un protocollo di trattamento standard: un’esperienza personale, ma dagli esiti di estremo valore e inaspettati. Un’esperienza che dovrà essere generalizzata poi agli altri caregivers, siano questi altri terapisti, altro personale sanitario o la stessa famiglia. Oggi Luca, ancora alimentato tramite nutripompa, ma mantenendo un pasto al giorno per via orale, ha raggiunto una qualità della vita nettamente migliore rispetto a quella che poteva avere solo alcuni mesi prima.

Cosa ha spinto a intraprendere questo percorso tortuoso e rischioso? L’empatia, il profondo legame che si è andato a creare, il saper ascoltare il malessere di Luca e il cercare di migliorare la sua qualità di vita. La nutrizione ha un importante valore affettivo e sociale, di conseguenza il non partecipare al rituale della nutrizione a causa dell’alimentazione tramite PEG, sviluppa un senso di non appartenenza al gruppo e di esclusione; inoltre, l’essere alimentato per bocca grazie al supporto di un caregiver rappresenta il sentirsi curato e ascoltato. Questi sono stati il focus che hanno dato vita al progetto e che hanno permesso un lavoro multidisciplinare di équipe all’interno del reparto volto al miglioramento della qualità di vita di Luca partendo da uno dei bisogni e piaceri primari.

Questo progetto ha dato vita ad una forte collaborazione tra il direttore sanitario che si è esposto dando il suo benestare, la logopedista che in primis si è messa in gioco esponendosi e studiando il percorso in ogni minima parte, le educatrici che hanno osservato e supervisionato quanto inficiasse nella persona tale sfida, la caposala, nonché infermiera di reparto, che si è resa disponibile in prima persona per una continuità del progetto. Un percorso lungo, diviso in varie fasi con correlati confronti attraverso le riunioni tra i vari professionisti che hanno partecipato.

Il protagonista è sempre stato solo Luca che ha da subito fatto capire la sua volontà di mantenere attivo, nella sua persona, il piacere di mangiare, di gustare e di assaporare, di mantenere vivi gli stimoli gustativi e olfattivi che fanno parte dei piccoli piaceri della vita. Ha attivato vari comportamenti per esprimere il suo malessere e i suoi stati d’animo, come urla, gesti che simulano l’imbocco, emettendo suoni riconducibili alla volontà di mangiare. Tali comportamenti venivano messi in atto all’arrivo del carrello, nei momenti dei pasti e per tutta la loro durata. Osservando Luca durante questo periodo, si è potuto notare come il suo impegno di crescita e la sua volontà abbiano portato al miglioramento della sua qualità di vita, al suo essere più sereno e al sentirsi parte della comunità in cui vive, nonché a una maggiore accettazione di quale sia la sua nuova casa (N.d.R. Piccolo Cottolengo Genovese, Casa di Paverano).

Il grande traguardo che sta conquistando Luca è anche una vittoria di un vero lavoro di équipe, una équipe unita che non si è risparmiata nel confronto e non si è fermata al solo pensiero clinico, ma è andata oltre pensando alla persona. Persona intesa come essere pensante con i suoi bisogni e desideri, lavorando per il suo benessere andando oltre agli “standard” e alle regole dettate dalle procedure. L’équipe è stata in grado di osservare da un’altra angolazione, e ciò è stato possibile proprio per la grande differenza delle “impostazioni” che hanno avuto a livello formativo queste figure professionali; come un puzzle: tanti pezzi diversi che hanno dato vita una nuova e immensa immagine.

La storia di Luca è, da questo punto di vista, emblematico e istruttivo: l’equipe multidisciplinare, cogliendo euristicamente, ossia intuitivamente, le potenzialità della persona presa in carico, ha ottenuto dei risultati inaspettati; tutto è partito da un lento percorso di autoapprendimento relazionale reciproco che ha reso possibile ciò che era stato dichiarato impossibile.

Francesca Bortolazzi – Logopedista
Opera Don Orione